Dario Corallo, dirigente Carneade del Partito Democratico, rivendicando niente più che la propria giovane età (per quanto sia già discutibile, a trent’anni suonati, definirsi ancora giovani), ha annunciato di volere dare la scalata alla segreteria nazionale e ha consumato il suo quarto d’ora di celebrità all’assemblea del partito di sabato scorso.
Il suo intervento è asceso alle cronache nazionali, complice un’azzardata citazione dell’immunologo Roberto Burioni (“Un Burioni qualsiasi…” cit.), esempio negativo, secondo il dirigente dem, di un’attitudine elitaria e sprezzante.
Si potrebbe commentare – e ne è la riprova questo articolo – che a Corallo sia riuscito di realizzare il proprio scopo, cioè quello di fare parlare di sé.
Tuttavia, andrebbe altresì considerato come strumentalizzare a fini di fatua visibilità congressuale una figura, come Burioni, già fin troppo esposta alle intemperanze di un movimento di opinione becero e violento, quale quello dei no-vax, sia sintomo se non di scarsa intelligenza, almeno di poca umanità.
A rendere l’uscita di Corallo ancora più odiosa e contestabile è poi l’impressione che il bersaglio non sia stato scelto a caso. È l’idea che, più che il gusto di pestare il callo al professore famoso, si sia deliberatamente inteso fare l’occhiolino a tutto quel mondo che le posizioni di Burioni contesta. Perché se protestano, sembra il non detto, qualche ragione pure l’avranno.
Interessarsi alle proteste e infischiarsene dalle ragioni, perché tanto, a rilevare, sono solo ed esclusivamente le ragioni del Partito, era il viatico di una certa sinistra, che si pensava estinta e schiacciata dalle macerie di un famoso muro, ma che evidentemente condiziona ancora il modo di pensare anche dei suoi più ‘giovani’ nipotini.
Blog di Federico Parea
Le scivolate del portavoce del Presidente del Consiglio sono ormai talmente numerose da non fare più notizia. Tuttavia, quella riportata dai media nel corso della settimana appena trascorsa ha davvero del clamoroso. Il nostro era ripreso nel corso di un incontro in cui propalava il proprio pensiero, o presunto tale, ricco di vere e proprie volgarità nei confronti delle persone affette dalla sindrome di Down. A questa brillante impresa, rispetto alla quale l’ex concorrente del Grande Fratello ha tentato una difesa improbabile, sono seguite reazioni tanto stizzite e indignate quanto motivate e condivisibili, veicolate, come è uso in questi tempi, in particolare dai social media.In molti, tra queste, hanno voluto mandare un messaggio al Signor portavoce attraverso l’immagine di un proprio amico o parente, che fosse figlio, nipote o cugino poco importa, affetto dalla medesima sindrome. Ammetto che questi messaggi mi hanno dapprima spiazzato, quindi, a freddo, suscitato un certo disagio. Anzitutto, per una ritrosia più personale a mischiare pubblico e privato, specialmente coinvolgendo categorie più deboli, quali possono essere bambini, anziani, diversamente abili. In secondo luogo, ritenendo improprio rendere partecipi tutti costoro al livello di una becera polemica con un volgare figuro. Mi sono poi chiesto “chi sono io per giudicare?”, riflettendo che, in fin dei conti, non spettasse a me valutare la scelta di persone comuni di rivendicare con orgoglio i propri affetti e la normalità dei propri prossimi. Certo, con una sola ma importante eccezione, perché quando ad essere protagonisti di queste situazioni sono personaggi con un ruolo pubblico (è girato, ad esempio, un tweet dell’ex premier Renzi ritratto in foto con in spalla la nipotina affetta da sindrome di Down) il confine tra orgoglio e cinismo diventa molto incerto e difficile da tracciare.
È notizia di questi giorni che la Procura di Catania ha chiesto l'archiviazione per il Ministro degli Interni relativamente alla vicenda di nave Diciotti, in quanto il ritardo nello sbarco dei 192 migranti a bordo fu "giustificato dalla scelta politica, non sindacabile dal giudice penale per la separazione dei poteri" (cfr. Repubblica.it, 1/11/2018).
L'azione amministrativa del potere esecutivo diviene insomma insindacabile e quindi lecita a prescindere, in quanto e ogni qual volta incardinata su motivazioni di natura politica.
È del 2008 un film che racconta un'intervista entrata nella storia del giornalismo e della politica, quella che David Frost effettuò all'ex Presidente USA Richard Nixon nel marzo del 1977.
Affrontando l'argomento Watergate, incalzato dal giornalista britannico, Nixon ebbe a sbottare: "Se è il Presidente a farlo significa che non è illegale".
Una ventina di anni fa, ma forse anche più, con l'intenzione di dedicare ad Elvis Presley un francobollo, le Poste degli Stati Uniti promossero un sondaggio per conoscere quale fosse la migliore raffigurazione per celebrare l'artista di Memphis.
In un film comico degli anni ’80, che narrava, in tre episodi incrociati, le vicende di altrettanti tifosi di Inter, Milan e Juventus, a un certo punto di uno di questi capitoli, veniva esposto sulla serranda di un bar chiuso il cartello “Chiuso per Derby”.
Lo stesso destino, posto che, invece che di chiusura, sarebbe più corretto parlare di rinvio, è toccato alla manifestazione nazionale indetta dal Partito Democratico, inizialmente convocata per il 29 settembre, quindi spostata al 30, causa la partita di calcio tra Roma e Lazio, programmata in concomitanza della prima data.
Già solo questo dettaglio, questa sicuramente giustificata ma altrettanto maldestra circostanza, basterebbe a raccontarci dello stato di un Partito che sul rigore organizzativo, più ancora che sulla coerenza del proprio disegno politico, fondava la propria forza e la propria presenza.
Ad osservare l’indifferenza della pubblica opinione verso questo evento, peraltro, o almeno come essa si registra in questi giorni, non è un azzardo pensare che l’episodio del rinvio per derby sarà una delle poche cose che questa iniziativa marcherà nella memoria del Paese.
Di questo, però, sarebbe un errore farne una colpa a questo o quel dirigente del PD. La verità è che è l’intero partito a sbiadire sempre più e progressivamente nei discorsi e nelle opinioni della gente, come qualcosa di lontano, di superato, di esaurito.
Forse è arrivato il conto che chi fondò il Partito Democratico mai saldò con la propria storia.