A supportare il lavoro dei quattro Paesi è l’ICMP, International Commission on Missing Persons, organizzazione che da oltre vent’anni si occupa di identificare le vittime di conflitti e calamità naturali. All’Aia, in Olanda, il laboratorio dell’ICMP può contare sulle più avanzate tecnologie per l’analisi del DNA.
I numeri sono la prima grande incognita a cui trovare una risposta. “Almeno 8 mila corpi recuperati lungo le coste italiane non sono mai stati identificati”, dice Kathryne Bomberger, direttore generale dell’ICMP. “Sulla Grecia non abbiamo ancora dati disponibili. Potrebbero essere ben più rilevanti di quelli registrati a Cipro e Malta”.
Nel 2017 sono morte nel Mediterraneo oltre 3 mila persone. E almeno il doppio, secondo l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM), non è arrivato nemmeno a tentare la traversata, morendo nel viaggio tra l’Africa sub-sahariana e i Paesi della costa. Le cifre sono in aumento, anche se il flusso migratorio verso l’Europa negli ultimi anni è calato. Nel 2017 si contava una vittima ogni 29 migranti; nei primi mesi dell’anno la percentuale è salita a uno su 14. “E’ il segno che le strade di questo esodo sono sempre più a rischio – osserva Federico Soda, direttore dell’ufficio Mediterraneo all’OIM – Chi lascia i Paesi d’origine rimane spesso vittima di trafficanti senza scrupoli, scafisti e reti criminali. In Libia, soprattutto nei confronti delle donne, gli abusi sono sistematici”.
Quello delle prigioni libiche è un inferno che Bakari Jamada conosce bene. Vent’anni, originario del Gambia, ha le mani che tremano mentre al forum organizzato dell’International Commission on Missing Persons ricorda il suo viaggio verso il Mediterraneo, un’odissea durata due anni attraverso Senegal, Mali, Burkina Faso e Niger. “Sono stato rapito e venduto per 250 dinari, non so nemmeno quanto sia in euro”.
Rinchiuso in cella a Tripoli, Bakari dorme per terra e beve acqua di scolo. “Di tanto in tanto mi prendevano e mi torturavano per farmi chiamare a casa, per chiedere alla mia famiglia di mandare dei soldi. Ma i miei genitori non ne avevano. Allora mi pestavano fino a farmi perdere i sensi”. Finalmente la fuga. Stremato e dato per morto, Bakari viene raccolto in strada da Mohamed, un giovane di Dakar che lo ospita e lo sfama fino alla sua partenza per l’Italia. “Di lui però non ho più avuto notizie. E’ scomparso, spero tanto che sia vivo”. Individuare i dispersi e investigare sulle circostanze delle sparizioni non è solo un atto di umanità; per i Paesi di transito come l’Italia è un obbligo di legge sancito dalla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo.
“La barca si è capovolta, la mia famiglia mi è sparita davanti agli occhi senza che potessi fare niente. Li sento ancora chiamarmi, chiedere aiuto”. La voce di Walid Khalil Murad si increspa come il mare che al largo della Grecia ha inghiottito sua moglie, i loro tre bambini e sua sorella con i tre figli. Era il dicembre 2015. Era trascorso poco più di un anno da quando la sua regione, il Sinjar, cadeva nelle mani dell’Isis per diventare lo scenario di uno dei più atroci massacri di yazidi sul suolo iracheno.
Da quella traversata si salvarono solo sei passeggeri su 29 e Walid non ha avuto più notizia dei suoi cari. Oggi a Roma stringe fra le mani la loro foto e si aggrappa alla speranza. “Le onde li hanno allontanati da me, non li ho più visti. Ma qualcuno potrebbe essere sopravvissuto”.
Il dramma è lo stesso dei famigliari di almeno 27 mila morti o dispersi, negli ultimi 4 anni, lungo le rotte della migrazione. Tra queste il Mediterraneo, con 16 mila dispersi, resta di gran lunga la più pericolosa. Un immenso cimitero dove ora qualcuno potrebbe iniziare a dare un nome alle tante vittime mai identificate.
La svolta è arrivata il 12 giugno, proprio mentre infuriava la disputa fra le autorità italiane e maltesi sulla nave Aquarius e il suo carico di 629 migranti. A Roma a Villa Massimo nelle stesse ore rappresentanti di Italia, Grecia, Cipro e Malta lanciavano la prima iniziativa congiunta sul tema dei dispersi nel Mediterraneo. A invitarli è stata l’International Commission on Missing Persons (ICMP), organizzazione con sede all’Aia che dal ’96 supporta i governi nel difficile compito di ritrovare e identificare le persone scomparse in seguito a conflitti, calamità naturali e crisi umanitarie.
Secondo l’OIM i migranti provengono da 65 Paesi diversi del mondo. Indagare sulla loro scomparsa vuol dire prima di tutto raggiungere gli Stati di origine, per raccogliere informazioni e campioni del DNA dai loro congiunti e poi confrontarli con i resti recuperati lungo le coste europee.
“E’ un territorio completamente inesplorato - spiega Kathryne Bomberger, direttrice generale della Commissione internazionale per le persone scomparse – perché per la prima volta l’Europa si trova a fronteggiare il tema di sparizioni su così vasta scala. Un lavoro immane, che nessuno Stato è in grado di affrontare da solo”. Per questo l’ICMP ha lanciato il suo programma sui migranti dispersi, avviato grazie a una donazione di 400 mila dollari da parte del governo svizzero.
L’incontro del 12 giugno a Roma ha istituito la prima cooperazione internazionale su questo tema. I quattro Stati coinvolti hanno condiviso un piano di lavoro, supportato dall’ICMP, per dotarsi di organismi interni che assicurino il rispetto degli obblighi di legge e i diritti dei superstiti. L’Italia su questo piano non parte da zero: dei quattro Paesi è l’unico che ha un commissario straordinario per le persone scomparse, il prefetto Mario Papa, che collabora con l’ICMP dal 2016.
“Sonderemo poi le capacità tecniche degli Stati di identificare i dispersi – aggiunge Bomberger - e di cooperare con le organizzazioni internazionali e con le forze di polizia per assicurarsi che chi è colpevole di queste sparizioni, incluse le organizzazioni criminali che sfruttano i migranti, siano chiamati a rispondere delle loro responsabilità”.
I delegati puntano a creare un ‘Gruppo Farnesina’, che si doti di un meccanismo operativo comune per l’identificazione dei dispersi, guardando all’intero bacino del Mediterraneo. “E’ un primo passo ma è storico, perché per la prima volta i governi si uniscono per dare una risposta a questo problema”, conclude Bomberger.
La sede dell’ICMP si trova in un’austera palazzina bianca nel centro dell’Aia. Nel laboratorio al piano terra i genetisti sono al lavoro per analizzare campioni di DNA arrivati da varie parti del mondo. “Con queste tecnologie si possono estrarre molecole di genoma anche da un piccolo frammento osseo conservato per decenni in condizioni critiche - spiega Thomas Parsons, direttore Scienza e Tecnologia all’ICMP – Grazie al Next Generation Sequencing, l’ultima frontiera della genetica, siamo in grado di processare velocemente grandi quantità di DNA, arrivando ad accertare l’identità di una persona a partire da una goccia di sangue di un lontano parente”.
La nostra organizzazione, aggiunge la direttrice Kathryne Bomberger, “può aiutare a unire i puntini sulla mappa delle migrazioni. In Siria e in Iraq, terreni difficili dove non riusciamo ancora a intervenire direttamente per identificare le vittime, teniamo traccia dei rifugiati e dei dispersi. Abbiamo un database con 93 mila profili che possiamo confrontare con i campioni consegnati al nostro laboratorio”.
Grazie a questa esperienza la commissione è diventata il punto di riferimento per i casi di persone scomparse nei cinque continenti, in scenari di guerra, disastri o calamità naturali. Dall’uragano Katrina allo tsunami nel sud-est asiatico, dai conflitti in Kurdistan e Iraq fino alle Torri gemelle, il ruolo dell’ICMP si è rivelato determinante.
“Di fronte a una tragedia globale come quella delle migrazioni non ci si può voltare dall’altra parte – dice Andreas Kleiser, direttore Politiche e Cooperazione – non solo per motivi umanitari ma innanzi tutto di legalità. Ci sono già molti casi sollevati davanti alla Corte di Strasburgo”. Accertare una morte può essere l’unica risposta a necessità molto pratiche, come ottenere un’eredità o un risarcimento, ma anche la verità sulla sorte dei familiari e, in ultima istanza, per avere giustizia.
Il primo terreno di prova per l’ICMP è stato il conflitto in ex-Jugoslavia, nel ‘96. Qui il lavoro della commissione ha permesso di identificare il 70% delle 40 mila vittime, fornendo prove per l’incriminazione di 161 persone. I lavori del Tribunale internazionale dell’Aia si sono conclusi da pochi mesi, il 31 dicembre, con la condanna all’ergastolo di Ratko Mladic, il ‘macellaio di Srebrenica’. “Ci siamo trovati spesso ad operare in scenari in cui i primi complici di violazioni dei diritti umani erano i governi – conclude Kathryne Bomberger – In questo caso c’è una forte volontà politica, da parte di più nazioni, per trovare una soluzione. E’ una sfida difficile ma siamo fiduciosi che insieme si possa superare ogni ostacolo”.
Nel salone d’onore dell’ambasciata svizzera, il 12 giugno a Roma, un pubblico di politici e rappresentanti di organizzazioni internazionali ascolta da oltre due ore un gruppo di migranti africani e del Medio Oriente. Ad accomunare i loro racconti, oltre alla sofferenza e ai traumi della guerra, c’è anche l’angoscia di aver perso amici e parenti. E’ il ‘Profile of the missing event’, il forum a cui intervengono le famiglie dei dispersi per condividere le loro esperienze. E’ un’occasione anche per aumentare la consapevolezza dei decisori politici sulla centralità della questione per pacificare le regioni colpite dalla guerra, prevenire i conflitti, garantire la giustizia internazionale e il rispetto dei diritti umani.
Kazem Othman, un elettricista siriano di quarantacinque anni, agita una fotografia trovata su internet. Lo scatto mostra un gruppo di bambini a scuola, che ascoltano l’insegnante disposti a semicerchio. “Sono sicuro al 99%, questo è mio figlio”, dice indicando un bambino in primo piano, di spalle. Di lui, e del cuginetto che ha la stessa età, si sono perse le tracce nel 2015: cercava di raggiungere la Grecia insieme alla sua famiglia, quando la barca è affondata. La disperazione dei superstiti può condurre nelle mani di persone senza scrupoli. Kazem si è fidato di un avvocato conosciuto in Grecia, che dopo alcune ricerche ha raccontato di aver individuato il figlio dell’uomo sull’isola di Lesbo. Salvo poi dileguarsi con il denaro ricevuto per rimettersi in contatto con il piccolo. 17 mila i minori non accompagnati raggiungono ogni anno il territorio europeo. Il 13% degli arrivi via mare in Italia è costituito da bambini che viaggiano da soli. Sono loro le prime potenziali vittime del racket di esseri umani.
“Finché vivrò, continuerò a cercare mio figlio. Voglio essere sicuro di aver fatto tutto il possibile”, dice Kazem asciugandosi gli occhi. “In Turchia c’è un cimitero che chiamano ‘la tomba dei numeri’, dove sono seppellite 140 persone. La polizia ha raccolto campioni di DNA. Ho provato a raggiungerlo per cercare anche lì, ma mi è stato negato il visto”. La prima sfida per il Programma Migranti dell’ICMP sarà proprio di facilitare lo scambio di dati raccolti nei vari Stati e mettere a punto un sistema unitario per l’analisi e il trattamento di queste informazioni. Dove non ci sono tecnologie sufficienti per l’analisi del DNA, in una seconda fase del programma potrà intervenire il laboratorio della Commissione all’Aia. Nel frattempo si incroceranno i profili delle vittime con quelli dei parenti, nei Paesi europei di destinazione come nei vasti campi profughi del Libano, Giordania, Turchia e Iraq. Qui l’ICMP sta implementando un programma per la raccolta dati sostenuto dall’Unione europea.
“Fornire un’identificazione può alleviare il fardello di una famiglia - dice Kathryne Bomberger - ma alle persone serve di più di questo: serve giustizia, servono risarcimenti. Serve per aiutare le agenzie internazionali come l’Europol o l’Interpol ad assicurare alla legge coloro che si sono resi responsabili di queste sparizioni, fornendo i barconi o trafficando in minori”. Può darsi che il numero delle vittime del Mediterraneo continui a crescere, ma almeno su quei ‘cimiteri dei numeri’ inizierà a comparire qualche nome.
(ANSA Magazine)