Non si parla di fughe, ma di ritorni. “Ritorni, non deportazioni coatte”, sottolinea Otto Bitjoka, imprenditore camerunense e capo tribù bantu, organizzatore dell’evento all’auditorium di Palazzo Lombardia. “È giusto che chi non trova le condizioni per integrarsi venga aiutato a ritornare con dignità nel proprio Paese d’origine”, dice il Presidente della Regione Fontana a margine, perché “dobbiamo aiutarli ad ottenere maggiori responsabilità”. È per questo che “per la parte formativa io nel mio piccolo ho un piano (il progetto presentato da Ucai, ndr)”, ma adesso “dobbiamo aspettare che l’Europa si svegli e si impegni concretamente in un piano di investimenti”.
Il punto fondante della proposta dell’Unione è il superamento della rappresentazione piatta, banale, svilente dell'”immigrato nero” e, di contro, la valorizzazione di quella immigrazione africana che negli anni ha costruito una presenza attiva, innovativa e partecipe in Italia: è la nuova cittadinanza degli afroitaliani.
“Nessuno di noi ne esce – dice Bitjoka dal palco – se prima non ci si riconosce nelle regole di questa Costituzione, ci si impegna a rispettarla e si diviene consapevoli della propria identità di cittadini italiani o meglio afroitaliani. Solo dopo questo si può parlare di altro”.
Convinti della loro italianità e fieri della loro africanità, gli afroitaliani chiedono di essere riconosciuti come soggetto protagonista di questo comune cammino e non intendono più delegare a nessun’altro se non a se stessi i doveri e i diritti del proprio ruolo.
“Dobbiamo sfruttare a nostro vantaggio la nostra sfiga” dice Bitjoka, con una provocazione. “Fanno il business sulle nostre sfighe? D’ora in poi dovremmo prenderlo in mano noi”. Niente ghetti, ma cultura universale con “una visione panafricana che deve essere socializzata” e con un’afroitalianità “da tutelare e preservare, nel rispetto degli articoli 2 e 6 della nostra Costituzione”.
A detta di Bitjoka bisogna ripartire da questo, diventando consapevoli del fatto che “la cittadinanza italiana non è più una conquista meramente logistica” ma essenziale.
Il secondo punto programmatico di Ucai mira al ritorno volontario in Africa di quote di immigrati, in ragione di una politica di formazione professionale sviluppata in Italia in collaborazione e in sinergia con gli Stati africani di provenienza. “Bisogna capire che non tutti in Africa sanno fare tutto” dice Bitjoko. “Creiamo banche dati per profilare i possibili lavoratori selezionati e poi formati”, prima del loro ritorno nella terra d’origine.
Questa sorta di migrazione al contrario verso l’Africa se seguita e implementata con attenzione è tutt’altro che paradossale, ma gioca in anticipo sui tempi (rispetto alle immense potenzialità dell’economia africana) aprendo canali di sviluppo nel solco di una strategia “win-win”: ovvero positiva per entrambe le parti (Italia-Europa e Africa).
Fondamentale però, sarà il ruolo dei territori, delle Regioni, delle associazioni imprenditoriali, delle confederazioni agricole e dei sindacati.
“Noi oggi siamo in Lombardia ma questo progetto è un modello che deve coinvolgere tutto il Paese” dice Bitjoko. Il terzo punto della proposta è teso a garantire i migliori servizi di accoglienza a chi arriva, dove per migliori sono intesi essere quelli che consentono alle persone di inserirsi in un percorso curato, intelligente e propositivo che indirizzi e supporti verso una o l’altra delle opzioni prospettate da Ucai (o la realizzazione di sé come afroitaliano e afroeuropeo oppure il ritorno (strutturato e implementato) alla propria identità africana. Con dignità e orgoglio.
Perché come dice Maurizio Pessato, di Swg, che presenta durante la conferenza un sondaggio, gli immigrati africani “si rendono ben conto che questo flusso migratorio continuo non porta da nessuna parte e non ha sbocco negli altri Paesi, quindi c’è una sconfitta per l’Africa che perde giovani e una sconfitta per noi perché alla fine queste persone vivono una condizione difficile”. È per questo che “c’è la richiesta di arrivare alla gestione di questo problema attraverso un rapporto vero tra Africa e Europa”.
Insomma, “i giovani immigrati – prosegue Pessato – vorrebbero andare più sul piano dell’inclusione, superare l’aspetto di accettazione e sentirsi parte della nostra società e della loro”.
Ecco perché a fronte di essere sfruttati qui “occorrerebbe mettersi di traverso in tutti i modi per dire di no a chi ti viene a prendere lì”, dice Butjoko, convinto che in Occidente si vantino della democrazia quando “in Africa funziona meglio, perché ogni rappresentante può essere sfiduciato dalla base”.
È per questo che i nuovi e i vecchi immigrati “vivono male l’immigrazione degli ultimi anni”, riprende Pessato, e “vorrebbero che si affrontasse il tema in maniera più adeguata, ragionata ed efficace anche con l’Africa, che loro vedono come un terreno da affrontare e approfondire di più”.
Quanto all’Italia, osserva l’esperto di Swg, “dovrebbe sviluppare più discorsi economici e far sì che questi giovani africani non intraprendano questo viaggio che porti a precarietà e difficoltà”.