Era solo una questione di tempo: l'attentato che lo scorso 22 settembre 8foto) e costato la vita a 25 persone nella città di Ahvaz, nel sud dell'Iran, rappresenta solo l'ultimo capitolo di un processo di destabilizzazione del paese mediorientale iniziato lo scorso anno.
Quando il 13 ottobre del 2017 il presidente statunitense, Donald Trump, aveva annunciato il ritiro unilaterale - ed ingiustificato - degli USA dal cosiddetto accordo nucleare iraniano, era facile intuire quale fosse il piano.
A memoria, non si ricordano esempi di cancellazione arbitraria e unilaterale di un accordo che aveva portato intorno al tavolo dei negoziati il cosiddetto gruppo 5+1 ( i cinque membri del Consiglio di Sicurezza più la Germania) con la Repubblica Islamica.
A differenza di quanto fatto in occasione dell’invasione dell’Iraq, Washington non si e' nemmeno sforzata di fabbricare prove false, decidendo semplicemente di non stare ai patti e facendo carta straccia di un accordo costato anni di lavoro.
Un accordo di fatto patrocinato dall'Europa che, non a caso, aveva reagito con sdegno all'annuncio di Donald Trump sul ritiro degli USA.
A distanza di un anno, con l’entrata in vigore delle nuove sanzioni che hanno bloccato ogni possibilità di riforma della Repubblica Islamica, l’isolamento economico dell’Iran riflette con l'incapacità dell'Europa di tenere vivo l'accordo come promesso lo scorso anno e l'impotenza delle sue cancellerie suona come un cattivo presagio.
Anche i recenti annunci sulla creazione di "un'entità speciale per i pagamenti", iniziativa fortemente voluta da Federica Mogherini che mira a creare una sorta di scudo per permettere alle aziende europee di effettuare pagamenti da e verso l'Iran, per quanto lodevole sul piano politico, viene sostanzialmente derisa dalla stampa cosiddetta "liberal" americana.
Insomma, sembrano ormai lontani i tempi dell’elezione del moderato Rohani alla presidenza della Repubblica Islamica e della telefonata di Obama: l'Iran e' oggi un paese sempre più strangolato dalle sanzioni imposte da Washington, schiacciato da un'inflazione fuori controllo.. La speranza di avviare un processo di normalizzazione dei rapporti tra la comunità internazionale e Teheran sembra svanita. Inoltre, e' facile prevedere che Teheran valuterà la possibilità di dotarsi di armi atomiche come deterrente di fronte ad un potenziale attacco.
E’ una strana politica quella americana nei confronti dell’Iran: proprio quando si apre uno spazio politico per le riforme in Iran, si interviene scientemente a destabilizzare il paese e, con esso, la pace nell’intera regione mediorientale.
Non stupisce che la strategia sia il frutto di un coordinamento geometrico tra Riyad, Washington e Tel Aviv: l’obiettivo, infatti, più che favorire riforme e aperture democratiche sembra essere piuttosto quello di voler distruggere l’unica potenza regionale dell’area. Un paese che per storia, cultura, tradizione e dimensione geopolitica può rappresentare un attore indipendente e stabile nella regione del Golfo, fatta di entità statuali artificiali e da regimi oscurantisti, sanguinari e tirannici come quello gestito brutalmente della corona saudita.
Di fronte alla caduta libera del Rial (la moneta nazionale iraniana), al crollo delle esportazioni petrolifere dettato dei blocchi, all’azzeramento del commercio internazionale, il rischio di chiusura degli ayatollah e’ una certezza più che una possibilità: perché trattare se poi gli accordi diventano carta straccia in men che non si dica? E perché fidarsi dell’Europa se, dopo l’umiliazione inflitta dal Tycoon del Queens, ai proclami di fedeltà all’accordo corrisponde una fuga di tutte le aziende sotto le minacce e i ricatti di Washington? Si guardino i casi Eni e Total su tutti. La reazione europea alla violazione americana dell'accordo e’ stata più imbarazzante che ridicola; non a caso quando si e’ provato a citare il “blocking statute”, cioè la possibilità per le aziende europee di non sottostare alle imposizioni USA, un funzionario americano aveva commentato sprezzante dicendo che “non e’ qualcosa di cui siamo preoccupati”. A guardar bene l’atteggiamento di Macron, poi, si ha addirittura il sospetto che il “paladino” dell’Europa (che pero’ difende solo la Francia, vedi caso Regeni) si sia messo d’accordo con Trump per giocare al poliziotto buono e poliziotto cattivo. Del resto non e’ una caso che la Total non abbia perso un attimo a cancellare miliardi di contratti petroliferi.
A completare il quadro di una bella storia diplomatica finita in una brutta farsa militaresca c'è' la copertura mediatica dell'evolversi della situazione. Fa impressione leggere sulle colonne del New York Times, vero e proprio bastione dell’intellighenzia “liberal” schierata contro la presidenza Trump, un articolo quasi celebrativo dei “risultati” ottenuti con le ultime sanzioni imposte all’Iran dall’amministrazione di Washington. Dopo lo scivolone dell'anno scorso a firma di Thomas Friedman, che celebrava la "primavera araba" del sanguinario Mohammad bin Salman, la “Signora in grigio” (nome del famoso quotidiano newyorkese) prima, durante e dopo la campagna elettorale, non si e’ mai risparmiata di criticare il rischio connesso dell’attitudine spaccona e populista di Trump: il Tycoon del Queens viene solitamente descritto come un incompetente che non perde occasione di denigrare i “cosiddetti esperti”, avvelenando il dibattito politico e delegittimando la comunità scientifica, soprattutto in fatto di riscaldamento globale ed economia.
Eppure, nell’articolo a firma di Clifford Krauss, l’attitudine classica del quotidiano risulta capovolta: a dimostrazione dell’ottima “riuscita” delle ultime sanzioni sulle esportazioni petrolifere si legge una citazione di Michael Lynch che afferma “Il presidente sta facendo l’opposto di quello che dicono gli esperti, e sembra che tutto stia funzionando”.
Insomma persino il Times sembra strizzare l’occhio ad una realpolitik spietata che sta ottenendo come risultato quello di affamare la popolazione iraniana e di spingere il paese sull’orlo di una crisi dalle conseguenze imprevedibili. Un’attitudine che rispecchia molto bene la politica estera di Washington nei confronti della regione mediorientale: alle dichiarazioni pubbliche fatte di appelli alla stabilita’ e auspici di riforme, corrispondono mosse spregiudicate che favoriscono lo scivolamento della regione verso una situazione di conflitto diffuso e sanguinario.
Se questo e’ il nuovo ordine mondiale, allora tocca constatare che si presenta sotto la bandiera della barbarie.
Eleonora Perez